Non puoi possedere nulla di ciò che conta
Torna all’indice Bollettino di aprile 2025
(Marina Corradi)
Alle 11, stamattina in perfetto orario, il Frecciarossa da Milano entra adagio nella Stazione Termini. Così adagio facciamo quegli ultimi metri, dopo i 300 km all’ora, che dai finestrini rigati di pioggia distinguo ogni sasso della massicciata. Improvvisamente lo sguardo mi cade su qualcosa che non ci dovrebbe essere: una macchia rosso vermiglio tra i binari lucenti e il bianco delle pietre. Alzo gli occhi, meravigliata: papaveri, un nugolo di papaveri in fiore. Al sette di marzo? Obietta la milanese che io sono. Papaveri al sette di marzo, impossibile, mi rispondo, certa, da lombarda di lungo corso. Eppure che stia davanti ai miei occhi quel manipolo fiero di corolle, proprio all’ingresso di Termini, è innegabile. So bene che Roma rispetto a Milano è un altro cielo, un altro sole, un’altra latitudine. Però quella fiammata porpora sulla massicciata, mentre sulle colline del Nord ancora è prevista neve, è troppo. Mi volto con gli occhi a guardarla, mentre il treno infila il suo fiero muso aerodinamico sul binario, fra le banchine. Tornerei anche indietro per vederli, per coglierli, se non sapessi fin da bambina che i papaveri, reciso il gambo, nello spazio di pochi minuti reclinano la corolla. Sono fiori che non si possono cogliere, ma solo guardare; che non si possono stringere in una mano, perché in quella stretta già appassiscono. Il che, quando ero bambina, mi aveva lasciato pensierosa: diversamente dai giocattoli, dai dolci, dalle bambole, i papaveri dei campi non si poteva prenderli in mano, non si poteva dire: “Miei”. Che cosa strana per una bambina viziata, che otteneva tutto quel che voleva: i fiori più belli dei campi, a giugno in montagna, nell’afferrarli morivano. Avrei imparato da grande, faticosamente, che così è di ogni amicizia, di ogni amore: come credi di stringerli nel possesso, li hai persi. L’ho appreso, vecchia ormai, anche con i figli, che, finché erano bambini, ingenuamente avevo creduto “miei”. Invece i figli sono liberi e incostringibili, se davvero gli vuoi bene. L’immagine luminosa dei papaveri di marzo a Termini si dissolve nella folla di Termini. Le vetrine dei negozi della Stazione traboccano di roba attraente e acquistabile. Ma niente di ciò che conta, mi hanno ricordato gli audaci papaveri di Roma a marzo, puoi possederlo davvero.
La “lezione” dei papaveri mi ha fatto venire in mente il racconto dell’apparizione di Gesù risorto alla Maddalena il mattino di Pasqua, narrato nel Vangelo di Giovanni (20,1.11-18).
Siamo nel giardino dove Gesù è stato sepolto: Maria Maddalena piange perché il corpo del suo signore è stato portato via.
Vede Gesù lì in piedi, ma lo scambia per il “custode del giardino” (una delle più belle definizioni di Gesù!). Quando poi Gesù si fa riconoscere, le dice: ”Non mi trattenere”.
Gesù, lui che fa crescere i papaveri nel suo giardino, è come loro – come tutto ciò che conta davvero -: non lo puoi tenere solo per te, non lo possiedi mai del tutto.
Celebrare la Pasqua è custodire semi di luce perché possano germogliare e fiorire.
“Noi passiamo dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (1Gv. 3,14).
“Come a dire che persone, cose, situazioni passano dalla morte alla vita, germinano, se incontrano tepore. Amo la parola tepore perché custodisce una misura piccola di calore, piccoli segni di tenerezze. L’amore del Risorto non è accecante, è tepore” (Angelo Casati)
C’è troppo freddo dentro e intorno a noi.
Sostiamo al tepore dei racconti della risurrezione.
Auguri a tutti di buona Pasqua.
Don Pilli