Nell’esperienza del morire si può incontrare Colui che ti viene incontro?

Da un testo di Paolo Alliata, ispirato da “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj

Quando sei disorientato nel labirinto della vita non continuare ad agitarti, a ripetere ossessivamente i passi già fatti. Lasciati raggiungere dalle domande fondamentali. Perchè sono così in crisi? Che nome hanno in verità i miei sentimenti? Di che cosa ho davvero bisogno? In che direzione sto andando? Le occasioni della vita in cui siamo costretti a fermarci possono rivelarsi preziose. Mi lascerò toccare dalle grandi domande? O mi adopererò per addomesticarle?.

Ivan ha bisogno di poter confidare a qualcuno la sua angoscia. Mettere in parole e sguardi la tormentosa consapevolezza di essere sulla soglia della fine. Ma nessuno dei familiari è capace di portare il peso di questa confidenza. Ha bisogno di una presenza amica, a cui consegnare il carico del proprio cuore frantumato.

Quanta forza sorge dal fondo di una consapevolezza condivisa ed esplicita, quanta forza scaturisce dal poter parlare liberamente della propria morte, dal poterci fare i conti.

Rivivo qui il passaggio della morte di mia mamma. Nel suo letto in ospedale, il giorno prima di morire, negli ultimi attimi di lucidità, mi dice; «Sto morendo». Lo dice con consapevolezza, come di una cosa naturale, e con molta pace. In quel momento mi sta in realtà dicendo: sto morendo, Paolo, e ti accompagno attraverso la mia morte, perché anche per te sarà un po’ una morte. Sarà il distacco. Io ti accompagno e tu accompagni me. E io le rispondo: Sì, mummy, ci andiamo insieme, arriviamo insieme fino alle Grandi Mura, alla porta stretta, alla soglia del Grande Giardino, e poi ti

lascio andare.

Si può camminare insieme nell’esperienza del morire? Quando si ama qualcuno si può aiutarlo a vivere l’esperienza della morte? Non c’è dubbio che sia così. La rimozione della morte ci rende fragili e poveri, perché c’è qualcosa di luminoso e di potente dentro l’esperienza del morire.

Che cosa fa Gesù nell’Ultima Cena?

Già in precedenza ha ammonito i suoi: guardate che il mio destino è di finir male, di essere ucciso per mano dei nostri capi. I discepoli non lo capiscono, ma nell’Ultima Cena Gesù non permette più che facciano finta di niente, se li raduna tutti attorno e attraverso gesti e parole li accompagna al distacco da lui. “Io faccio di questa morte ingiusta un dono per chiunque lo vorrà accogliere.” Parla chiaramente della sua morte, sollecita e aiuta i suoi a vivere con densità quel morire.

E ci riesce così bene che quell’esperienza la riviviamo ancora dopo venti secoli. Perché quando celebriamo l’Eucaristia noi ci reimmergiamo in quella sera. Essa ha talmente segnato la coscienza dei suoi discepoli, tanto che costoro ce l’hanno trasmessa come il primo dei Racconti. I Vangeli, infatti, nascono anzitutto dalla Passione di Gesù, che è rimasta marchiata a fuoco nella mente e nel cuore dei discepoli. Negli ultimi giorni di vita di mia mamma cercavo angolini tranquilli in ospedale, dove ritirarmi a mettere per iscritto quel che ci eravamo appena detti. Soprattutto le sue parole, tanto più preziose perché avevo consapevolezza del fatto che sarebbero state le ultime. Mi rendevo conto che quello era un tempo denso, prezioso: non doveva sfuggirmi dalla memoria, volevo poterci ritornare e nutrirmi ancora di quel pane. Ho capito meglio, in quei giorni, come sono nati i Vangeli: dal desiderio di tener viva la memoria del racconto delle ultime ore di Gesù, delle sue parole e dei suoi gesti, e poi di tanti anni della sua vita.

 

Incontro

 

La tradizione cristiana dice che l’incontro con la morte è in verità l’incontro con il Vivente. Dentro l’esperienza del morire tu incontri Colui che ti viene incontro.

Qual è la vera natura della morte? Di essere una tortura senza senso? Un’assurdità? Il fatto che moriamo toglie forse ogni senso alla nostra vita?

A Ivan torna in mente un sillogismo che ha letto tempo prima: «Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale». Ivan protesta: “ma io, piccolo Vanja, io, Ivan Il’ič, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, io sono un’altra cosa. Non sono Caio, non sono un semplice nome. Non è possibile che mi tocchi morire. Proprio io. Sarebbe troppo orribile.”

Che cosa accade delle mie esperienze di vita, quando varco la soglia della morte? Costituiscono un bagaglio per il mio viaggio, per la mia avventura di esplorazione di quella nuova condizione di esistenza? O si sgretolano nella polvere del nulla, come se non fossero mai state? Forse il sillogismo funziona in generale, ma è la mia vita in particolare che implora e spera di non essere riducibile alla condizione dell’illusorio Caio.

La speranza deve fare i conti con il maledetto pensiero.

“Ma quel pensiero non era già più un pensiero, era, in un certo senso, realtà, e tornava indietro e si fermava davanti a lui […]. Provava a tornare alla precedente catena di pensieri che nascondevano, un tempo, il pensiero della morte. Ma, era strano, tutto quello che un tempo nascondeva, offuscava, liquidava la coscienza della morte, adesso, ormai, non faceva più effetto.”

Dopo il tentativo di rimozione, la ribellione: il non voler morire, il chiedere compulsivamente «Perché? perché mi fai così? che cosa ti ho fatto?»,

E insieme l’eruzione dei ricordi. Soprattutto quelli dell’infanzia. Ivan si accorge di una cosa strana: c’è come una luce, sullo sfondo dei ricordi più antichi, «più si andava indietro, più vita c’era. E più c’era del bene, nella vita, e più c’era la vita stessa […]. “I tormenti son sempre peggiori più si va avanti, e così tutta la vita, andando avanti, è diventata sempre peggiore”, pensava, C’era un punto luminoso, là indietro, all’inizio della vita, e poi tutto era diventato sempre più nero, e tutto era diventato sempre più veloce», man mano che si avvicina alla morte, Perché? Che cosa c’è di vitale nell’infanzia?

Che cosa intende dire Gesù quando chiarisce ai suoi: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mc 18,3)?

Di che cosa sta parlando? Di una fiducia fondamentale nella bontà delle cose, in qualche modo ingenua ma anche consapevole. Che ha anche la fisionomia di una scelta coraggiosa.

 

Allora posso affidarmi

 

Novembre 2020. Sono in ospedale, i miei polmoni sono compromessi per una polmonite bilaterale da Covid-19. Fatico a respirare. So di rischiare la morte. È la prima notte di ricovero in corsia. Chiamo e richiamo invano l’infermiera. Sono minuti (quanti?) di angoscia. Ed ecco, percepisco di scivolare dentro una consapevolezza solida e densa (è un ricordo che porterò con me fino al momento della mia morte). Quella consapevolezza che va maturando in me dice: «Io non ho più risorse. E quindi posso davvero consegnarmi».

Siccome non posso aggrapparmi a niente, allora posso soltanto – e davvero – appoggiarmi in avanti, affidarmi al Mistero che mi sta venendo incontro.

Mi piace pensare che questa sia una consapevolezza fondamentale che, in date circostanze, fiorisce nel cuore di ognuno di noi. Che però durante la vita ordinaria rimane come sepolta sotto altre vibrazioni – il senso di protagonismo, il malinteso che la vita mia e di chi amo dipenda tutta e solo da me, e di qui l’angoscia per il futuro… Credo che tutti custodiamo questa scintilla di verità: no, non dipende tutto e solo da me, il senso profondo della mia vita è di mettermi nelle mani di Colui che in me lavora e mi accompagna.

Che cosa ci racconta il Vangelo di Luca del cosiddetto «buon ladrone»? Nel dramma del suo passaggio attraverso la soglia della morte innalza la sua preghiera: la mia vita è tutta sbagliata, ma adesso mi affido a te, ricordati di me quando sarai nel tuo regno. Io non ho risorse, per cui posso proprio consegnarmi. Non ho nessun merito da accampare, posso soltanto mettermi nelle tue mani.

Questo è il grande annuncio biblico e in particolare cristiano: dal fondo del tuo travaglio, tanto più quando misuri la desolazione delle tue risorse, emerge Colui che da ogni notte fa sorgere la luce del giorno. Mettiti nelle Sue mani. Non essere come Ivan, che reprime il desiderio di piangere e di chiedere consolazione per mantenere la pesantissima facciata. Consegnati nelle mani di Colui che ti

viene incontro. Non pensare ai tuoi meriti, l’amore non si merita. Lo si accoglie.

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Lo Spirito del Signore respira al fondo di ognuno perché maturi in noi già in vita ciò che Ivan Il’ič scopre nel varcare la soglia della morte: ciò che ci rende liberi e veri è la consegna di noi stessi all’Amore.

Questo abbandono può compiersi quando ogni autogiustificazione è messa da parte, e il cuore si spalanca ad accogliere il dono dell’Amore che lo attira.

La nostra speranza di vita piena è l’Amore che ci chiama dal fondo dell’abisso.