A Natale Dio sposa la nostra vita, la vita di ogni persona

Forse anche questo ci insegna l’incarnazione di un Dio. Che ha abitato il frammento, ha dimorato la nostra povertà e debolezza. Lui che quando camminò per le nostre strade fece una cosa dopo l’altra, e mai due insieme, lui che stava nelle misure degli umani con rispetto per le loro lentezze, con sguardo di tenera compassione per la debolezza e la fragilità che incrociava. Un incrocio cui negava fretta di sorpasso: si fermava, si chinava e rialzava.

Lui, icona sulla terra, trasparente e immensa del Dio pastore, come l’avevano disegnato agli occhi del popolo i profeti, un Dio pastore che misura il passo su chi fa più fatica, sulla pecora malata, stanca, incinta.

Lui che rivendicò per se stesso non la figura del messia trionfante, ma quella di un messia curvo sulla terra, che mai e poi mai si azzarderebbe a fare scempio di una vita in frammenti. Dal Padre apprese il mestiere del vasaio: «Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18, 4). Nemmeno gli apparteneva la politica dello scarto. Lui appassionato di canne incrinate e di lucignoli fumiganti, lo sorprendevi intento a fasciare delicatamente le une e a dare olio pazientemente agli altri.

Lui che quando si trattava di fare parabole aveva premura di inventarle con le cose piccole della vita, nell’intento segreto di farle guardare a noi, che troppo spesso le oltrepassiamo con occhi pallidi e indifferenti.

Da quella notte Dio diede appuntamento nella fragilità degli umani. Purtroppo lungo i secoli si persistette a cercarlo da altre parti, anche le Chiese lo cercarono e ancora lo cercano da altre parti, nel segno di modelli vincenti, in modelli disumani di perfezione. Ma è perdere l’appuntamento. Che è nella debolezza e nella fragilità.

Non vergognartene. Né della tua né di quella degli altri. Dio l’ha sposata, sposata per sempre, quella notte. E tutta la vita, la sua – leggi il vangelo – fu un chinarsi sul mistero della fragilità. Ha dato appuntamento, non cercarlo altrove, mancheresti l’appuntamento con Dio. Che è nella fragilità della carne di un neonato. Guardalo, non occorre altro per amarlo. È ancora nudo dei mille orpelli umani, non ha altro titolo che quello di un essere umano, un titolo che appartiene a tutti, il vero grande titolo, il solo che Dio ha onorato. Ogni essere umano da onorare dunque nella sua fragilità e debolezza.

Non ti è chiesto altro, non altri prerequisiti, perché tu possa chinarti e adorare il mistero. Anche questo è un insegnamento urgente, in controtendenza in stagioni di disprezzo o di obnubilamento del rispetto. Sacro per ogni creatura.

 

Badate che il Natale è fuori. Perché lui ha scelto luoghi fuori. State come lui fuori. Se lo volete onorare e ringraziare fate processioni verso la vita. Se lui è venuto verso le cose di ogni giorno, fate riconciliazione con le cose di ogni giorno.

 

Ritorniamo alle cose di sempre, dopo esserci stupiti come i pastori. Anche loro tornarono alle cose di sempre, greggi e pascoli e bivacchi di notte. Ma con uno sguardo diverso. Che non era di sottovalutazione della loro vita, come se le cose, quelle cose, fossero di meno. Paradossalmente erano diventate di più, chiedevano più passione e più cura. Perché anche Dio si era messo in quelle cose, le loro cose, mangiatoia e fasce.

Se mai chiediamoci dove sono oggi le mangiatoie, dove i panni di neonati esclusi per i quali non c’è posto, dove oggi fuochi di bivacchi. Diamo nomi alle esclusioni di oggi. Diamo nome ai bivacchi del nostro tempo. È un invito a invertire la processione, ad andare là dove violata è la dignità di un uomo e di una donna. Là va fatto il Natale.

Questo sembra dirci il Natale, fuori dai sentimentalismi facili: Dio è nella carne viva e debole di ogni essere umano. Fascialo, prenditi cura. Prenditi cura di ogni essere umano. Semplicemente per il fatto che è un essere umano. Perché è lì che oggi ancora il Verbo si fa carne.

 

Non si può non soffrire tristezza per una stagione in cui, anzichè testimoniare la bellezza mozzafiato di un Dio che non scende dalla croce per mettere in salvo sé stesso, diamo ben altro, triste, avvilente, “brutto” spettacolo: quello di chi, pur di fare mercato con i potenti, più non osa alzare il grido a difesa dei diritti, ma naviga imperturbabile nel vuoto d’anima dei più triti equilibrismi mondani.

 

Che emozione, al contrario, ogni volta che si incrociano non personaggi ma donne e uomini, non il dominio ma la tenerezza, non l’esibizione ma la segretezza, non la competizione ma il cedere il passo, non la condanna ma la ·misericordia, non l’interesse ma la gratuità, non la distanza ma la condivisione, non il grido che zittisce ma la stima che fa parlare, non l’ossessione dei confini ma lo sconfinamento, non il possesso della verità ma l’adorazione in Spirito e verità, non un regime da schiavi ma la terra dei liberi, non l’appiattimento ma il sussulto, non l’assenza dei sentimenti ma la passione. Incroci non la vernice ma la bellezza.  Non potrebbe forse essere un esercizio da compiere anche oggi e da insegnare: insegnare a detronizzare?

Ma nel tempio, per grazia, c’è quella donna, vera. Lei c’è, con la profondità e la verità di sé stessa, lei così com’è, c’è con il cuore. E’ lei che va messa in cattedra. Dentro un mondo che pone al centro la ricerca di ruoli di successo, di pubblicità, di riconoscimento, di rilevanza mediatica, dentro un mondo cui ci si incontra tra maschere, dietro i ruoli: ecco la donna che Gesù mette in cattedra. Perché la mette in cattedra?

“In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,43-44).

 

Oggi per fedeltà al vangelo abbiamo il compito di detronizzare il vuoto che si è insediato in alto, ma abbiamo ugualmente il compito di portare in luce I gesti nascosti.  Ci doni il Signore parole silenziose che possano raccontare. A partire dal concreto della vita, possano raccontare la bellezza delle beatitudini. Troppa la volgarità che ci circonda. Una sfida, di questo si tratta: la sfida della bellezza. La bellezza che in un mondo dell’“io” arrogante e prepotente ci sia gente che mette la sua fiducia non in sé stessa ma in Dio. La bellezza che in un mondo di prepotenza e di prevaricazione ci sia qualcuno che sia mite d’animo e umile di cuore. La bellezza che in un mondo di compromessi e di intrighi ci siano coloro che sono integri nella vita. La bellezza che in un mondo di guerra e di violenza ci siano quelli che costruiscono ponti di comprensione e di pace.

 

Fa’ opera di detronizzazione dentro di te. Deponi le immagini prepotenti dai troni che abilmente, fraudolentemente i menestrelli del nulla hanno, ad arte e interesse, costruito. E ricorda che l’opera di detronizzazione inizia dentro di te. Nega loro la tua anima. Negala sdegnosamente. E ama la vita nella. sua interezza, ama la vita come succede, con le luci e con le ombre, con i ritmi con cui accade. Non snaturarla, ha una sua lentezza: se la neghi perdi il colore, perdi il sapore, il colore e il sapore della vita vera, quella autentica. Fuggi l’inganno dell’illimitato, che ti fa stare in quello che succede senza esserci, perché i tuoi occhi sognano altro. Sono già altrove. E non sono alla pagina della vita che stai leggendo, al volto che stai incontrando, all’emozione che ti sta sfiorando.

 

ANGELO CASATI

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